Io non ho mani che mi accarezzino il viso (titolo che la compagnia ‘ruba con amore’ a una poesia di David Maria Turoldo e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli, per definire una cornice, un perimetro più che un reale contenuto) nasce da una domanda posta ai due attori che abitano la scena (Aida Talliente e Andrea Trapani): «Qual è il personaggio della letteratura teatrale la cui fragilità sembra riguardarti? Le cui parole potresti dire anche tu, in quanto persona e non in quanto attore?». Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, Woyzeck di Büchner, Arkadina di ?echov, in risposta a questo iniziale quesito, animano uno spettacolo dal gusto pirandelliano in cui personaggi, attori e persone si sovrappongono senza continuità di causa. Tre solitudini che si incontrano, tre fragilità poste in un dialogo immaginario ma sempre in bilico tra realtà e finzione. Fino a non sapere più dove finisca il teatro e inizi la vita.
Io non ho mani che mi accarezzino il viso (titolo che la compagnia ‘ruba con amore’ a una poesia di David Maria Turoldo e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli, per definire una cornice, un perimetro più che un reale contenuto) nasce da una domanda posta ai due attori che abitano la scena (Aida Talliente e Andrea Trapani): «Qual è il personaggio della letteratura teatrale la cui fragilità sembra riguardarti? Le cui parole potresti dire anche tu, in quanto persona e non in quanto attore?». Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, Woyzeck di Büchner, in risposta a questo iniziale quesito, animano uno spettacolo dal gusto pirandelliano in cui personaggi, attori e persone si sovrappongono senza continuità di causa. Due solitudini che si incontrano, due fragilità poste in un dialogo immaginario ma sempre in bilico tra realtà e finzione. Fino a non sapere più dove finisca il teatro e inizi la vita.
info e biglietti: https://teatro.binario7.org/events/io-non-ho-mani-che-mi-accarezzino-il-viso
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Nata dall’incontro tra l’attore e autore Andrea Trapani e la drammaturga e regista Francesca Macrì, la compagnia Biancofango sviluppa, nel corso di più di dieci anni d’attività, una ricerca nel segno della nuova drammaturgia e delle nuove forme di scrittura scenica. Da In punta di piedi a Porco mondo, il duo si è fatto conoscere per le sue fini capacità narrative e per aver trovato un punto d’equilibrio tra corpo e testo, tra scrittura e attorialità. Io non ho mani che mi accarezzino il viso (titolo che la compagnia ‘ruba con amore’ a una poesia di David Maria Turoldo e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli, per definire una cornice, un perimetro più che un reale contenuto) nasce da una domanda posta ai due attori che abitano la scena (Aida Talliente e lo stesso Trapani): «Qual è il personaggio della letteratura teatrale la cui fragilità sembra riguardarti? Le cui parole potresti dire anche tu, in quanto persona e non in quanto attore?». Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, Woyzeck di Büchner, in risposta a questo iniziale quesito, animano uno spettacolo dal gusto pirandelliano in cui personaggi, attori e persone si sovrappongono senza continuità di causa. Due solitudini che si incontrano, due fragilità poste in un dialogo immaginario ma sempre in bilico tra realtà e finzione. Fino a non sapere più dove finisca il teatro e inizi la vita.
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Una donna. Un gruppo di musicisti seduti accanto a lei. Vecchi microfoni, vecchi dischi sparsi, sedie accatastate, bicchieri qua e là. Una scritta luminosa che scende dall’alto: “ON AIR”. Siamo in un luogo intimo: la sala di una vecchia radio anni ‘50. Dalla penombra e dal silenzio si sente suonare un disco: “Strange Fruit” e le prime parole confuse di una voce femminile. Una voce roca, rotta. È lei che parla: la donna. “Il mio più grande sogno è…”, così la donna inizia il suo racconto, come fosse l’ultima intervista, l’ultimo “canto” della sua vita. E dopo questo breve inizio è la musica della band a strappare il silenzio e ad accompagnarci nei sobborghi di Baltimora, nei jazz club di tutta New York, nelle città da una costa all’altra dell’America e negli anni tormentati delle violenze razziali. È dentro questo mondo che nasce la voce di Billie Holiday, quella voce che più di ogni altra è riuscita a raccontare con sincerità ogni sorta di esperienza vissuta. Quella voce così meravigliosamente umana e piena di franchezza che diventa l’urlo di un cane randagio, l’urlo dell’amore e della fame, l’urlo di ogni cicatrice che segna il corpo e il cuore, l’urlo delle tante strade percorse. Urlo e Canto divisi da una linea molto sottile, ed è dentro questa linea che nasce fragile e bellissimo il suo blues.
Sguardi critici Teatro-canzone o recital con sound. È difficile, e forse superfluo, imbrigliare in una categoria l’originalità dello spettacolo “The lady sings the blues”, che unisce il monologo spezzato di Aida Talliente, sempre strepitosa, e il blues live di una band affiatatissima di otto strumentisti, guidati da Simone Serafini. Ma un collante c’è in questo scivolare tra loro della parola che racconta e del tappeto sonoro che le fa eco. Ed è l’omaggio a distanza, a suo modo straniato, che dei giovani artisti bianchi del Duemila tributano alla vita e al prodigio di una regina statunitense del canto “nero”. Billie Holiday, cioè, e Lady Day per definizione che, nata a Baltimora nel 1915, riscattò nell’arte di una voce venata di straziato silenzio il disastro di un’esistenza infelice, ritmata da violenze, miseria, burrasche sentimentali e dissipazione da stupefacenti, fino al capolinea di un precoce congedo dal mondo a 44 anni. Ed è dunque dalla sua tribolazione che tutto sembra scaturire, in una scena che mima l’oscurità da Night-Club anni Trenta, tra lampadine accese, trovarobato alla rinfusa per la band e aria fumosa da immaginare. Di lato, appollaiata su un trespolo, la bocca quasi a baciare il microfono, i capelli ingentiliti dall’immancabile gardenia bianca, l’attrice nerovestita ripercorre e a tratti impersona le tappe di una via crucis personale, ma via via allargata a metafora della sofferenza secolare di tutto un popolo, schiavo di fatto anche dopo essere stato liberato per legge. E perciò qui si chiude con le parole di Strange fruit, la “Marsigliese nera” con cui la Lady del blues uscì dai temi dell’amore e della fame e prestò l’urgenza del suo canto alla denuncia di un dolore non più solo suo. Applausi scroscianti dalla folta platea, mentre si pensa che intanto in Georgia un dead man di colore, forse innocente, sta per essere giustiziato. \ Angela Felice
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