Il luogo Sacro

Un pensiero per me e per tutti quelli che, da sempre, fanno questo mestiere. Dopo un anno di lavoro e più, per costruire un nuovo spettacolo, per portare avanti una ricerca nel modo più coerente possibile, per mettere insieme i pezzi, per far girare le cose, per far suonare tutte le varie parti insieme in modo armonico, ecco che, prima di incontrare finalmente il pubblico, non sono più sicura di niente. Non che io lo sia mai stata, né tanto meno affezionata a ciò che di volta in volta si trova sul palco. Un grande desiderio, questo sì, di parlare a qualcuno che è lì con me per vivere un’esperienza. Ma…da un po’ di tempo…sempre più, mi sfugge quello che accade in platea. Mi sfuggono gli occhi, i pensieri, i gusti, la qualità d’ascolto del pubblico. Ciò che prima mi era famigliare, sta diventando criptico, incomprensibile, pericoloso. A volte pare che le cose vengano fatte per piacere a qualcuno e non più nella libertà di andare a cercare altri linguaggi, modalità sconosciute, osare uscire da schemi precisi o più semplicemente, sentire qual’è la voce più urgente dentro di sé. Il pubblico parla, parla sempre di più e critica. Spesso critica a vanvera dopo aver staccato più volte gli occhi dal palco per guardare il telefono preso da chissà quali irrinunciabili impegni. Critica a vanvera perché non gli è chiaro che quello spazio è uno spazio di rito e che dunque va rispettato. E questo vale anche per molti colleghi, che si comportano allo stesso modo perché non è stato insegnato loro che quello è spazio rituale. E penso anche…non sono le storie che riportiamo sul palco a toccarci e a commuovere, ma la precisione, la generosità, la pulizia dei movimenti, la fatica tradotta in bellezza, di chi, in quel momento, è il tramite di una storia. Sulla scena bisogna danzare. Danzare con il corpo, danzare stando fermi, danzare con le parole, con i silenzi e trovare tutti gli strumenti possibili per imparare a farlo. Cercarli sempre, non stancarsi, non fermarsi. Molto spesso le voci esterne possono scoraggiarci nel nostro lavoro ma credo che quando si è coerenti fino in fondo, molte parole dette senza la comprensione reale del processo creativo, possono essere taciute.  Penso al mio mestiere costantemente e le immagini che mi vengono negli anni sono sempre le stesse; quelle che mi hanno insegnato i miei maestri (dei buoni maestri) e quello che mi ha insegnato la vita vissuta fin’ora e le persone che ne fanno parte: teatro come spazio di incontro tra chi lo fa o con le persone che s’incontrano nella quotidianità e di cui si raccoglie la storia. Teatro come luogo di pensiero dove officiare un rito comunitario. Teatro come mestiere sociale, per poter parlare, discutere, riportare, presentare, riflettere. Teatro come luogo di bellezza, perché ciò che si costruisce sia bello non solo per il  messaggio riportato ma bello da vedere, perché vi è cura in ogni parte. Teatro come esempio di resistenza perché è fatto da un’ umanità che non può restare indifferente dove non c’è giustizia. Teatro come mestiere da rispettare perché troppe volte accade che il proprio lavoro non venga considerato, pagato, supportato nella giusta misura in cui si è disposti a lavorare oltre le 12/15 ore al giorno per mesi, pur di trovare qualcosa che abbia senso. Teatro che commuove come ogni forma di arte pura perché  chi lo fa, lo fa seriamente, con professionalità, con cura, con cuore. Teatro come luogo di memoria che serve a guardare avanti. Teatro che deve essere il luogo di chi fa questo mestiere perché lo ha scelto come traccia per la propria vita, perché ha studiato per farlo, perché si è preparato,  perché  ha ricevuto i suoi no, perché ha sopportato, perché può parlare con cognizione di causa quando quello che racconta sul palco risuona dentro di sé poiché attinge a esperienze personali. Non è e non sarà mai il  luogo di chi s’improvvisa teatrante da un giorno all’altro. Poco tempo fa una mia amica mi ha detto: “Sai, il teatro mi fa male nonostante io lo ami e mi capita di non emozionarmi più”. Alla mia amica (che capisco profondamente) dico; che il teatro quando è fuori  da macchine produttive e distributive stritolanti, non fa male…anzi…è il più bel modo esistente al mondo per tuffarsi dentro l’essere umano. E che, sì…ci si può ancora commuovere se chi sale sul palco sa dove sta andando, cosa sta facendo senza il bisogno di mostrare niente ma lasciando guardare ciò che gli accade profondamente.

Aida. 22/23 febbraio ore 21.00 Il Vangelo delle Beatitudini – Teatro S. Giorgio (Ud)

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